La corsa ai farmaci contro COVID-19 ed i virus che verranno / The race for drugs against COVID-19 and the viruses to come

 La corsa ai farmaci contro COVID-19 ed i virus che verranno The race for drugs against COVID-19 and the viruses to come


Segnalato dal Dott. Giuseppe Cotellessa / Reported by Dr. Giuseppe Cotellessa



Per combattere COVID-19 e battere sul tempo le prossime pandemie è indispensabile poter disporre, oltre che di vaccini, di una scorta adeguata di farmaci ad ampio spettro, in grado di sconfiggere un'ampia gamma di virus. Le ricerche in questo senso sono già in corso, ma le case farmaceutiche saranno così lungimiranti da portare avanti questi studi senza una ricaduta economica immediata?

Il 2003 fu un anno nefasto per le malattie infettive. Due ceppi letali di influenza avevano fatto il salto di specie dagli uccelli agli esseri umani a Hong Kong e nei Paesi Bassi. E aveva iniziato a diffondersi nel mondo un nuovo coronavirus che causava una malattia misteriosa, che sarebbe diventata nota con il nome di SARS (severe acute respiratory syndrome, sindrome acuta respiratoria grave). Molti esperti temevano che fosse l’inizio di una pandemia globale.

Per fortuna lo scenario peggiore non si concretizzò. Il pericolo però era stato abbastanza vicino da indurre Robert Webster, un’autorità sull’influenza aviaria, a sollecitare scienziati e responsabili politici a prepararsi alla prossima epidemia. Una delle sue raccomandazioni principali fu di sviluppare e fare scorta di farmaci capaci di attaccare un’ampia gamma di patogeni virali.

I ricercatori impegnati in ricerche sui farmaci non gli diedero ascolto. Quando la minaccia della SARS scemò, l’interesse scomparve – e il mondo ne ha pagato le conseguenze. "La comunità scientifica avrebbe dovuto davvero sviluppare antivirali universali contro la SARS", afferma Webster, oggi membro emerito del St. Jude Children’s Research Hospital a Memphis, in Tennessee. "In quel modo avremmo avuto qualcosa da usare quando è emersa la COVID" che è causata dal virus SARS-CoV-2, strettamente imparentato con quello responsabile della SARS.

Un altro avvertimento ci fu nel 2012, quando iniziò a diffondersi in alcuni paesi la MERS (middle east respiratory syndrome, sindrome respiratoria medio-orientale), causata da un altro virus imparentato con SARS-CoV-2. Però anche in quel caso sugli scaffali delle farmacie arrivò ben poco, un fatto che Jay Bradner, presidente dei Novartis Institutes for BioMedical Research a Cambridge, in Massachusetts, considera "deplorevole". "Ci dovremmo vergognare", dice, riferendosi all’industria farmaceutica in generale. "Avremmo potuto essere più preparati."



Virus dell'influenza aviaria /  Avian flu virus (© Science Photo Library/AGF)


A parte un successo limitato con il Remdesivir, sviluppato in origine per l’epatite C ed Ebola, in pratica non esisteva alcun potenziale farmaco antivirale abbastanza promettente da testare e impiegare rapidamente contro SARS-CoV-2. I ricercatori si lamentano che non ci fossero più opzioni. "Ci serve un arsenale", afferma Kara Carter, direttrice del reparto biologia per la scoperta di nuovi farmaci dell’azienda biotech Dewpoint Therapeutics di Boston, in Massachusetts, e presidente della International Society for Antiviral Research.

Oggi all’orizzonte si vedono nuove iniziative per creare questo arsenale. Gli US National Institutes of Health (NIH), per esempio, stanno mettendo in piedi un enorme programma di sviluppo di farmaci contro le varianti di SARS-CoV-2 ed altri virus con potenziale pandemico. Una nuova coalizione sostenuta dalle aziende del settore prende di mira i virus dell’influenza ed i coronavirus. E alcuni gruppi sperano di creare antivirali per altri patogeni, meno strettamente imparentati, che rappresentano un rischio di pandemia.

Questi progetti non partono da zero. Lo scorso anno c’è stata un’ondata di iniziative volte allo sviluppo di farmaci mirati contro SARS-CoV-2. Però, visto che nella sua storia l’industria farmaceutica si è concentrata in modo particolare solo su una manciata di virus (soprattutto l’HIV e quello dell’epatite C), continua a essere difficile trovare strumenti utili a combattere minacce note e potenziali.

"C’è un sacco di lavoro da fare", sostiene Nat Moorman, virologo all’Università della Carolina del Nord (UNC) a Chapel Hill. Ma che opzioni ha la comunità scientifica? "Non vogliamo vedere un altro anno come il 2020 – afferma Moorman – e non siamo costretti a vederlo se ci diamo da fare per tempo."

Pronti all’uso


Il Remdesivir è stato realizzato grazie alla previdenza dei ricercatori dell’Antiviral Drug Discovery and Development Center (AD3C), un progetto lanciato dai NIH sette anni fa. L’obiettivo del progetto è esaminare le banche dati dei farmaci già esistenti alla ricerca di inibitori di influenza, coronavirus, alfavirus (come quelli che causano la chikungunya), e flavivirus (i patogeni responsabili tra l’altro di dengue e Zika). Nel 2017 i membri dell’AD3C hanno dimostrato il potenziale di Remdesivir contro i coronavirus in modelli animali. Più o meno nello stesso periodo le sperimentazioni condotte durante due epidemie di Ebola in Africa hanno dimostrato che il farmaco era sicuro per l’uso negli esseri umani.

Così, quando è arrivato COVID-19, il Remdesivir era pronto ed è stato possibile avviare subito la fase di sperimentazione sugli esseri umani per usarlo contro il nuovo coronavirus. In un ampio studio controllato con placebo e condotto per tre mesi all’inizio del 2020, i ricercatori clinici hanno dimostrato che il farmaco accelerava la guarigione di pazienti ospedalizzati per COVID-19. Ma l’utilità del Remdesivir è limitata; altri studi clinici non sono riusciti a confermare l’esistenza di un beneficio per i pazienti. Inoltre è un farmaco costoso, difficile da produrre e che deve essere somministrato per via endovenosa in ospedale, tutte caratteristiche poco desiderabili nel bel mezzo di una pandemia.

Un altro farmaco antivirale in via di approvazione sarà forse in grado di risolvere alcuni di questi problemi. Il Molnupiravir è un farmaco per via orale, è più facile da sintetizzare ed è stato dimostrato che riduce la durata della fase infettiva nei soggetti affetti da COVID-19 in forma sintomatica. Attualmente è in fase di sperimentazione clinica avanzata.

Anche il Molnupiravir era stato studiato in epoca pre-pandemica dai ricercatori di AD3C, che hanno identificato anche potenziali farmaci promettenti contro gli alfavirus e i flavivirus. Richard Whitley, uno dei direttori di ricerca all’AD3C e specialista di malattie infettive pediatriche all’Università dell’Alabama a Birmingham, spiega che tutti questi potenziali farmaci funzionano come falsi blocchi genetici che impediscono ai virus di replicare fedelmente il proprio genoma. Ingannano un enzima virale chiamato polimerasi che, invece di inserire le basi RNA durante la replicazione, incorpora i derivati dei farmaci. (Si usano farmaci simili per curare l’epatite B, l’HIV e diversi altri virus.)

Dato che in generale i virus non sono bravi ad accorgersi degli errori genetici, questo tipo di terapia, detta degli analoghi nucleotidici, spesso funziona per intere famiglie virali. Gli antivirali che si legano direttamente agli enzimi e ne bloccano la funzione, che rappresentano la stragrande maggioranza dei farmaci antivirali, di solito non hanno un raggio d’azione così ampio. In linea teorica i ricercatori potrebbero progettare farmaci che funzionano contro diversi virus attaccando le parti maggiormente conservate delle proteine bersaglio, dice Jasper Fuk-Woo Chan, che studia le malattie infettive emergenti all’Università di Hong Kong. Ma, aggiunge, "tradizionalmente l’approccio è sempre stato: un farmaco per malattia".

Questa filosofia ha funzionato bene per l’industria farmaceutica quando si trattava di nuove cure per l’HIV o l’epatite C. "Ma si è rivelata inefficiente per affrontare rapidamente le epidemie o le pandemie", afferma Chan.

Strategie nuove per bersagli difficili


In molti sensi, l'azione a corto raggio degli antivirali esistenti dipende dalla natura stessa dei virus. Altri tipi di patogeni (batteri, funghi, parassiti), sono più facili da contrastare perché le proprietà delle loro cellule offrono molti bersagli ai farmaci. Pensiamo alla penicillina, che inibisce la formazione della parete cellulare, o agli antifungini azolici, che distruggono la membrana cellulare.

I virus, con il loro genoma compatto e l’assenza di anatomia cellulare, offrono meno bersagli all’attività dei farmaci. Se aggiungiamo un alto tasso di replicazione (per esempio, si ritiene che un’infezione tipica da SARS-CoV-2 produca più di un milione di virioni al giorno) e un’intrinseca mutabilità genetica, non è strano che la maggior parte degli antivirali esistenti si sia dimostrata inutile contro COVID-19.

La plasticità dei virus comporta che un farmaco attivo contro l’herpes, per esempio, ha poche probabilità di fare effetto contro un coronavirus. Per questo Alejandro Chavez, bioingegnere e ricercatore che si occupa di antivirali all’Irving Medical Center della Columbia University a New York, dubita che si possa trovare "un inibitore onnipotente che blocchi praticamente tutto. Quello che speriamo di trovare sono inibitori che funzionino, con molta fortuna, contro un’intera famiglia." Nel migliore dei casi questo ci darebbe un inibitore per tutti i coronavirus. Invece un obiettivo più ragionevole sarebbe lo sviluppo di un farmaco contro un sottogruppo di coronavirus, per esempio gli alfacoronavirus, che oggi causano infezioni non letali negli esseri umani, ed un altro farmaco diverso per i betacoronavirus, il gruppo responsabile di SARS, MERS e COVID-19.

Una volta identificata la linea virale, "si applicano gli stessi principi usati nella scoperta di nuovi medicinali", afferma Marnix Van Loock, direttore del settore patogeni emergenti all’unità di salute pubblica globale di Johnson & Johnson’s a Beerse, in Belgio. Come spiega Van Loock, i ricercatori devono trovare "angoli bersaglio per i farmaci" sulla superficie degli enzimi essenziali che si conservano uguali tra virus imparentati e che quindi si possono usare per progettare molecole attive.

O almeno, questa è la situazione se con il farmaco si intende colpire il virus stesso. Alcuni ricercatori puntano invece a interferire con le vie metaboliche degli esseri umani requisite da un’ampia gamma di virus, che poi le usano per i propri scopi. Jeffrey Glenn, per esempio, sta sviluppando un farmaco per bloccare un enzima che interviene nella regolazione dei lipidi e che è usato da molti virus per entrare nelle cellule e favorire la replicazione. Con l’inibizione di questo enzima "togliamo al virus l’accesso a una funzione dell’ospite da cui esso dipende", spiega Glenn, gastroenterologo e virologo molecolare alla Stanford University School of Medicine, in California.

Un’altra strategia antivirale che agisce sull’ospite è quella sviluppata da due ex tirocinanti di Glenn: Nam-Joon Cho, ricercatore in scienza dei materiali alla Nanyang Technological University di Singapore, e Joshua Jackman, ingegnere chimico alla Sungkyunkwan University a Seul. I due hanno sviluppato farmaci peptidici di piccole dimensioni che bucano il rivestimento lipidico dei virus provvisti di pericapside. I lipidi del pericapside provengono dalla membrana di superficie delle cellule umane, ma i peptidi penetrano solo quelli che avvolgono i virus, non quelli che avvolgono le cellule, grazie a differenze nella dimensione della struttura e nella flessibilità della membrana.

Cho descrive il rivestimento lipidico come il "comune denominatore" di tutti i virus provvisti di pericapside, un gruppo che comprende, tra gli altri, flavivirus, alfavirus, coronavirus, filovirus e retrovirus. Non esistono altre caratteristiche condivise in modo così ampio da così tanti virus diversi, ragion per cui Cho ritiene che gli antivirali che agiscono sull’ospite possano avere un potenziale maggiore come strumento per prepararsi alle pandemie.

Inoltre, la biologia umana presenta molti più bersagli possibili per l’attività dei farmaci rispetto ai virus. Ed i virus sono meno capaci di sviluppare una resistenza agli antivirali che agiscono sull’ospite. Per esempio, a una proteina virale possono bastare un paio di mutazioni per evitare l’effetto dei farmaci che si legano a essa, mentre una terapia che agisce sull’ospite può forzare il virus a sfruttare processi cellulari del tutto diversi.

Alcuni ricercatori temono che manipolare le vie metaboliche umane possa avere effetti collaterali indesiderati, ma Shirit Einav, virologa e specialista in malattie infettive alla Stanford University, ritiene che le paure di un’eventuale tossicità del farmaco siano esagerate. "Curiamo qualsiasi altra malattia agendo sulle funzione dell’organismo ospite", spiega, e le aziende farmaceutiche riescono a trovare molecole e dosaggi che sono tollerati dagli esseri umani. Perché le cose dovrebbero essere diverse per gli antivirali? Inoltre, aggiunge, "per curare le infezioni acute bastano alcuni giorni di terapia", non mesi o anni come avviene per le malattie croniche, "e questo aiuta a ridurre la tossicità".

Farsi trovare pronti


La migliore assicurazione contro le minacce virali future sarebbe una combinazione di farmaci che agiscono sull’ospite e di farmaci ad azione diretta. Ma qualunque sia la strategia seguita dalla ricerca, gli esperti concordano che qualsiasi farmaco destinato a farci trovare pronti in caso di pandemia debba, come minimo, essere pienamente testato sui modelli animali e aver superato alcune sperimentazioni su volontari umani sani. "A quel punto, in caso di pandemia, potremmo usarli rapidamente a basso dosaggio negli esseri umani", afferma la chimica Kelly Chibale, direttrice del Drug Discovery and Development Centre all’Università di Città del Capo, in Sudafrica.

L’obiettivo è approvare e distribuire un farmaco di questo tipo in quella finestra cruciale in cui altre risposte rapide (come i vaccini o le terapie con anticorpi) non sono ancora disponibili.

I ricercatori impegnati nello sviluppo di nuovi farmaci iniziarono questo lavoro di preparazione dopo l’epidemia di SARS. Per esempio, nei laboratori dell’azienda farmaceutica Pfizer a La Jolla, in California, i ricercatori risposero all’epidemia del 2003 progettando una molecola che inibisce una proteina essenziale alla replicazione del coronavirus, un enzima detto main protease (Mpro), che taglia le lunghe catene di proteine virali nelle loro parti funzionali.

Per circa sei mesi "fu un lavoro molto intenso", racconta Rob Kania, il chimico che era a capo del progetto di Pfizer sulla SARS. Ma presto i contagi scemarono e, dopo gli ultimi casi di SARS registrati nel 2004, Pfizer e le altre aziende farmaceutiche archiviarono i programmi sui farmaci contro quella malattia poiché non c’era un mercato futuro per un’eventuale terapia. Come sottolinea il virologo dell’UNC Timothy Sheahan, che in precedenza ha lavorato per l’industria farmaceutica: "È difficile convincere un’azienda a produrre un farmaco contro una cosa che non esiste".

Il gruppo di ricerca di Kania non ebbe l’occasione di ottimizzare per l’uso clinico il migliore dei suoi farmaci potenziali, e men che meno quella di sperimentare la terapia sui topi o sugli esseri umani. Così, quando è arrivato SARS-CoV-2 e le analisi genetiche hanno rivelato che la sua proteina Mpro era quasi identica a quella del virus originale della SARS, c’era ancora molto da perfezionare a livello chimico. Quando il farmaco, in forma leggermente diversa, è stato pronto per la sperimentazione sugli esseri umani, la prima ondata di pandemia era già finita e in tutto il mondo quasi un milione di persone erano morte per il contagio.

Quel farmaco, chiamato PF-07304814, è entrato in fase di sperimentazione lo scorso settembre sotto forma di preparato somministrato per via endovenosa. Anche se la ricerca avrebbe potuto essere in una fase più avanzata, almeno Pfizer non ha dovuto iniziare da zero, dice Charlotte Allerton, direttrice della progettazione dei farmaci dell’azienda.

Anche se altre aziende stanno lavorando per raggiungere lo stesso obiettivo, Pfizer è l’unica casa farmaceutica con un inibitore sperimentale di Mpro attualmente in fase di sperimentazione sugli esseri umani; anzi, ne ha due. Oltre alla riformulazione del farmaco contro SARS, lo scorso mese Pfizer ha avviato la sperimentazione su un altro farmaco, PF-07321332, somministrato per via orale. "Se sono contenta di essere in una posizione in cui ci possiamo muovere rapidamente e di aver fatto il lavoro preparatorio? Sì", afferma Allerton. "Se vorrei aver raggiunto una fase più avanzata ed essere in grado di offrire più rapidamente delle opzioni di cura? Certo che sì."

Sirena d’allarme


Le aziende che non avevano fatto questo tipo di lavoro adesso si stanno impegnando per non farsi cogliere di nuovo impreparate. La pandemia è stata "una sirena d’allarme", commenta John Young, direttore globale del reparto malattie infettive dell’azienda farmaceutica Roche a Basilea, in Svizzera. "È solo una questione di tempo prima che ne arrivi un’altra – continua – e come settore dobbiamo prepararci."

A tale scopo i leader della COVID R&D Alliance, una coalizione di più di 20 aziende farmaceutiche e biotecnologiche e società a capitali di rischio che lo scorso anno si sono riunite per collaborare nella lotta a SARS-CoV-2, stanno ora lanciando un secondo progetto che riguarda gli antivirali ad ampio spettro contro i coronavirus ed i virus influenzali. Secondo Elliott Levy, direttore strategico e operativo del reparto ricerca e sviluppo di Amgen a Thousand Oaks, in California, che è a capo del progetto, il gruppo intende portare circa 25 potenziali farmaci antivirali fino alle prime fasi della sperimentazione sugli esseri umani e costruire l’infrastruttura necessaria per le sperimentazioni cliniche, così da poter condurre sperimentazioni parallele quando il prossimo virus letale colpirà il mondo.

Il governo degli Stati Uniti ha ambizioni simili. Gli antivirali contro i coronavirus sono "il compito numero uno", afferma Francis Collins, direttore dei NIH. Però, ha continuato parlando a "Nature", "sicuramente si intende allargare l’iniziativa anche ad altre famiglie di virus, se saranno disponibili fondi".

Iniziative complementari fanno capo al progetto Corona Accelerated R&D in Europe, che ha una durata prevista di 5 anni e finanziamenti per 75,8 milioni di euro. L’obiettivo è trovare farmaci sia per l’attuale pandemia di COVID-19, sia per le epidemie di coronavirus future. Anche Moorman e altri ricercatori della UNC, con la Rapidly Emerging Antiviral Drug Development Initiative, sperano di raccogliere 500 milioni di dollari da governi, case farmaceutiche e fondazioni per sviluppare antivirali ad ampio spettro e ad azione diretta.

Intanto alcune grandi case farmaceutiche hanno aumentato l’impegno internamente. Novartis, per esempio, sta lavorando all’ottimizzazione di un inibitore dell’enzima Mpro da usare contro tutti i coronavirus. Secondo John Tallarico, direttore del reparto biochimica e terapie di Novartis, ci vorrà almeno un altro anno prima di arrivare alla sperimentazione clinica sugli esseri umani ed a quel punto forse COVID-19 sarà già sotto controllo. In ogni caso, continua Tallarico, Novartis è decisa a portare avanti il programma.

Tuttavia, commenta Levy, "il livello di impegno del settore al momento non è proporzionato alla minaccia"; per questo il direttore strategico e operativo di Amgen spera di raccogliere circa un miliardo di dollari solo dalle case farmaceutiche per lo spin-off di COVID R&D Alliance dedicato alla preparazione contro le pandemie. Ulteriori fondi, continua, potrebbero venire anche da organizzazioni senza scopo di lucro ed altri investitori.

Andy Plump, presidente del reparto ricerca e sviluppo di Takeda Pharmaceutical a Cambridge, in Massachusetts, ed uno dei leader di COVID R&D Alliance, è ottimista sulle possibilità di successo. "Al momento ci sono molte energie impegnate su questo fronte, perché c’è l’immediatezza di SARS-CoV-2", afferma. Però non vuole rischiare che torni a subentrare l’apatia, come successe dopo la SARS e la MERS. "Dobbiamo darci da fare subito."

ENGLISH

To fight COVID-19 and beat the next pandemics in time, it is essential to have an adequate supply of broad-spectrum drugs, capable of defeating a wide range of viruses, in addition to vaccines. Research in this regard is already underway, but will the pharmaceutical companies be so far-sighted as to carry out these studies without an immediate economic fallout?


2003 was a bad year for infectious diseases. Two lethal strains of flu had made the leap in species from birds to humans in Hong Kong and the Netherlands. And a new coronavirus had begun to spread around the world causing a mysterious disease, which would become known as SARS (severe acute respiratory syndrome). Many experts feared it was the beginning of a global pandemic.


Fortunately, the worst scenario did not materialize. But the danger had been close enough to prompt Robert Webster, an authority on avian flu, to urge scientists and policymakers to prepare for the next epidemic. One of his main recommendations was to develop and stock up on drugs capable of attacking a wide range of viral pathogens.



Researchers engaged in drug research did not listen to him. When the SARS threat subsided, interest disappeared - and the world paid the price. "The scientific community really should have developed universal antivirals against SARS," says Webster, now an emeritus member of St. Jude Children's Research Hospital in Memphis, Tennessee. "That way we would have had something to use when COVID emerged" which is caused by the SARS-CoV-2 virus, closely related to the one responsible for SARS.


Another warning came in 2012, when MERS (middle east respiratory syndrome), caused by another virus related to SARS-CoV-2, began to spread in some countries. But even then, very little reached the pharmacy shelves, a fact that Jay Bradner, president of the Novartis Institutes for BioMedical Research in Cambridge, Massachusetts, considers "deplorable." "We should be ashamed," he says, referring to the pharmaceutical industry in general. "We could have been more prepared."

Apart from limited success with Remdesivir, originally developed for hepatitis C and Ebola, there was virtually no potential antiviral drug promising enough to test and deploy rapidly against SARS-CoV-2. Researchers complain that there were no more options. "We need an arsenal," says Kara Carter, director of biology for drug discovery at biotech company Dewpoint Therapeutics in Boston, Massachusetts, and president of the International Society for Antiviral Research.


Today we see new initiatives on the horizon to create this arsenal. The US National Institutes of Health (NIH), for example, are setting up a huge drug development program against variants of SARS-CoV-2 and other viruses with pandemic potential. A new coalition backed by industry companies targets influenza viruses and coronaviruses. And some groups hope to create antivirals for other, less closely related, pathogens that pose a pandemic risk.


These projects don't start from scratch. Last year there was a wave of initiatives aimed at developing targeted drugs against SARS-CoV-2. However, given that in its history the pharmaceutical industry has focused in particular on only a handful of viruses (especially HIV and hepatitis C), it continues to be difficult to find useful tools to combat known and potential threats.


"There's a lot of work to be done," says Nat Moorman, a virologist at the University of North Carolina (UNC) at Chapel Hill. But what options does the scientific community have? "We don't want to see another year like 2020 - says Moorman - and we don't have to see it if we get busy in time."


Ready to use

Remdesivir was created thanks to the foresight of researchers from the Antiviral Drug Discovery and Development Center (AD3C), a project launched by the NIH seven years ago. The aim of the project is to examine existing drug databases in search of influenza inhibitors, coronaviruses, alfaviruses (such as those that cause chikungunya), and flaviviruses (the pathogens responsible for dengue and Zika among other things). In 2017, AD3C members demonstrated the potential of Remdesivir against coronaviruses in animal models. Around the same time, trials conducted during two Ebola outbreaks in Africa showed that the drug was safe for use in humans.


Thus, when COVID-19 arrived, the Remdesivir was ready and it was possible to immediately start the experimentation phase on humans to use it against the new coronavirus. In a large placebo-controlled study conducted for three months in early 2020, clinical researchers showed that the drug accelerated the recovery of patients hospitalized for COVID-19. But the usefulness of Remdesivir is limited; other clinical trials have failed to confirm the existence of a benefit for patients. It is also an expensive drug, difficult to manufacture, and must be administered intravenously in the hospital, all undesirable characteristics in the midst of a pandemic.


Another antiviral drug pending approval may be able to address some of these problems. Molnupiravir is an oral drug, is easier to synthesize and has been shown to reduce the duration of the infectious phase in patients with symptomatic COVID-19. It is currently in an advanced clinical trial phase.


Molnupiravir was also studied in the pre-pandemic era by AD3C researchers, who also identified potential promising drugs against alfaviruses and flaviviruses. Richard Whitley, a research director at AD3C and a pediatric infectious disease specialist at the University of Alabama in Birmingham, explains that all of these potential drugs function as false genetic building blocks that prevent viruses from faithfully replicating their genome. They fool a viral enzyme called polymerase which, instead of inserting RNA bases during replication, incorporates drug derivatives. (Similar drugs are used to treat hepatitis B, HIV and several other viruses.)

Since viruses are generally not good at detecting genetic errors, this type of therapy, called nucleotide analogues, often works for entire viral families. Antivirals that bind directly to enzymes and block their function, which represent the vast majority of antiviral drugs, usually do not have such a wide range of action. Theoretically, researchers could design drugs that work against different viruses by attacking the most conserved parts of target proteins, says Jasper Fuk-Woo Chan, who studies emerging infectious diseases at the University of Hong Kong. But, he adds, "traditionally the approach has always been: a drug for disease".


This philosophy worked well for the pharmaceutical industry when it came to new treatments for HIV or hepatitis C. "But it proved ineffective in dealing with epidemics or pandemics quickly," says Chan.


New strategies for difficult targets

In many ways, the short-range action of existing antivirals depends on the nature of the viruses themselves. Other types of pathogens (bacteria, fungi, parasites) are easier to counter because the properties of their cells offer many targets for drugs. Think of penicillin, which inhibits cell wall formation, or azole antifungals, which destroy the cell membrane.


Viruses, with their compact genome and the absence of cellular anatomy, offer fewer targets for drug activity. If we add a high replication rate (for example, a typical SARS-CoV-2 infection is believed to produce more than a million virions per day) and inherent genetic mutability, it is not surprising that most antivirals existing has proved useless against COVID-19.


The plasticity of viruses means that a drug active against herpes, for example, is unlikely to have an effect against a coronavirus. That's why Alejandro Chavez, a bioengineer and antiviral researcher at Columbia University's Irving Medical Center in New York, doubts that "an omnipotent inhibitor can be found that blocks virtually everything. What we hope to find are inhibitors that work, with much luck, against an entire family. " At best this would give us an inhibitor for all coronaviruses. Instead, a more reasonable goal would be to develop a drug against a subgroup of coronaviruses, for example, alpha-coronaviruses, which now cause non-lethal infections in humans, and another different drug for betacoronaviruses, the group responsible for SARS, MERS and COVID. -19.


Once the virus line is identified, "the same principles apply as used in drug discovery," says Marnix Van Loock, director of emerging pathogens at Johnson & Johnson’s global public health unit in Beerse, Belgium. As Van Loock explains, researchers must find "drug target angles" on the surface of essential enzymes that are conserved equally between related viruses and can then be used to design active molecules.


Or at least, this is the situation if the drug is intended to target the virus itself. Some researchers instead aim to interfere with the metabolic pathways of humans requisitioned by a wide range of viruses, which then use them for their own purposes. Jeffrey Glenn, for example, is developing a drug to block an enzyme that is involved in the regulation of lipids and which is used by many viruses to enter cells and promote replication. By inhibiting this enzyme, "we remove the virus from accessing a host function it depends on," said Glenn, a gastroenterologist and molecular virologist at Stanford University School of Medicine in California.


Another antiviral strategy that acts on the host is the one developed by two former Glenn interns: Nam-Joon Cho, a materials science researcher at Nanyang Technological University in Singapore, and Joshua Jackman, a chemical engineer at Sungkyunkwan University in Seoul. The two developed small peptide drugs that pierce the lipid coat of viruses with pericapsid. Pericapsid lipids come from the surface membrane of human cells, but peptides only penetrate those that envelop viruses, not those that envelop cells, due to differences in membrane structure size and flexibility.

Cho describes the lipid coating as the "common denominator" of all pericapsid viruses, a group that includes flaviviruses, alfaviruses, coronaviruses, filoviruses and retroviruses, among others. There are no other characteristics shared so broadly by so many different viruses, which is why Cho believes that host-acting antivirals may have greater potential as a tool to prepare for pandemics.


Furthermore, human biology presents many more possible targets for drug activity than viruses. And viruses are less able to develop resistance to the antivirals that act on the host. For example, a viral protein may need a couple of mutations to avoid the effect of the drugs that bind to it, while a therapy that acts on the host can force the virus to exploit completely different cellular processes.


Some researchers fear that manipulating human metabolic pathways could have unwanted side effects, but Shirit Einav, a virologist and infectious disease specialist at Stanford University, believes fears of drug toxicity are exaggerated. "We treat any other disease by acting on the function of the host organism," she explains, and pharmaceutical companies are able to find molecules and dosages that are tolerated by humans. Why should things be any different for antivirals? In addition, she adds, "a few days of therapy are enough to cure acute infections", not months or years as with chronic diseases, "and this helps to reduce toxicity".



Be ready



The best insurance against future viral threats would be a combination of host-acting and direct-acting drugs. But whichever strategy the research follows, experts agree that any drug intended to get us ready in the event of a pandemic must, at a minimum, be fully tested in animal models and have passed some trials on healthy human volunteers. "At that point, in the event of a pandemic, we could quickly use them at low doses in humans," says chemist Kelly Chibale, director of the Drug Discovery and Development Center at the University of Cape Town, South Africa.


The goal is to approve and distribute a drug of this type in that crucial window in which other rapid responses (such as vaccines or antibody therapies) are not yet available.


Researchers engaged in the development of new drugs began this preparatory work after the SARS epidemic. For example, in the laboratories of pharmaceutical company Pfizer in La Jolla, California, researchers responded to the 2003 epidemic by designing a molecule that inhibits a protein essential to the replication of the coronavirus, an enzyme called main protease (Mpro), which cuts the long chains of viral proteins in their functional parts.


For about six months, "it was very intense work," says Rob Kania, the chemist who headed Pfizer's SARS project. But soon the infections waned and, after the last cases of SARS recorded in 2004, Pfizer and the other pharmaceutical companies closed their programs on drugs against that disease because there was no future market for any possible therapy. As UNC virologist Timothy Sheahan, who previously worked for the pharmaceutical industry, points out: "It's hard to get a company to make a drug against something that doesn't exist."


Kania's research team did not have the opportunity to optimize the best of its potential drugs for clinical use, much less to test the therapy on mice or humans. So when SARS-CoV-2 arrived and genetic analyzes revealed that its Mpro protein was nearly identical to that of the original SARS virus, there was still a lot to refine chemically. By the time the drug, in a slightly different form, was ready for testing in humans, the first wave of the pandemic was over and nearly a million people worldwide had died from the infection.


That drug, called PF-07304814, entered testing last September in the form of an intravenously administered preparation. While the research might have been at a later stage, at least Pfizer didn't have to start from scratch, says Charlotte Allerton, the company's director of drug design.

While other companies are working towards the same goal, Pfizer is the only pharmaceutical company with an experimental Mpro inhibitor currently being tested in humans; indeed, it has two. In addition to reformulating the drug against SARS, Pfizer last month began testing another drug, PF-07321332, which is administered orally. “Am I happy to be in a position where we can move quickly and to have done the preparatory work? Yes,” says Allerton. "What if I wish I had reached a more advanced stage and be able to offer treatment options more quickly? Of course I am."


Alarm siren

Companies that hadn't done this kind of work are now working hard not to be caught unprepared again. The pandemic was "a wake-up call," said John Young, global director of the infectious disease department at pharmaceutical company Roche in Basel, Switzerland. "It is only a matter of time before another one arrives - he continues - and as a sector we must prepare."


To this end, the leaders of the COVID R&D Alliance, a coalition of more than 20 pharmaceutical and biotech companies and venture capital firms that came together last year to collaborate in the fight against SARS-CoV-2, are now launching a second project. which concerns broad-spectrum antivirals against coronaviruses and influenza viruses. According to Elliott Levy, strategic and operations director of Amgen's research and development department in Thousand Oaks, Calif., Who leads the project, the group intends to bring about 25 potential antiviral drugs to the early stages of human trials and build the infrastructure needed for clinical trials, so that parallel trials can be conducted when the next deadly virus hits the world.


The US government has similar ambitions. Antivirals against coronaviruses are "task number one," says Francis Collins, director of the NIH. However, he continued speaking to "Nature", "certainly we intend to extend the initiative to other families of viruses, if funds are available".


Complementary initiatives are part of the Corona Accelerated R&D in Europe project, which has an expected duration of 5 years and funding of € 75.8 million. The goal is to find drugs for both the current COVID-19 pandemic and future coronavirus outbreaks. Moorman and other UNC researchers, with the Rapidly Emerging Antiviral Drug Development Initiative, also hope to raise $ 500 million from governments, drug companies and foundations to develop broad-spectrum, direct-acting antivirals.


Meanwhile, some large pharmaceutical companies have increased their commitment internally. Novartis, for example, is working on optimizing an Mpro enzyme inhibitor to be used against all coronaviruses. According to John Tallarico, director of Novartis' biochemistry and therapies department, it will take at least another year before we get to clinical trials in humans and by then maybe COVID-19 will already be under control. In any case, continues Tallarico, Novartis is determined to carry on the program.


However, comments Levy, "the level of commitment of the sector at the moment is not commensurate with the threat"; for this reason, the strategic and operational director of Amgen hopes to raise about a billion dollars from pharmaceutical companies alone for the spin-off of COVID R&D Alliance dedicated to preparing against pandemics. Additional funds, he continues, could also come from non-profit organizations and other investors.


Andy Plump, president of Takeda Pharmaceutical's research and development department in Cambridge, Massachusetts, and one of the leaders of the COVID R&D Alliance, is optimistic about the chances of success. "At the moment there are a lot of energies committed on this front, because there is the immediacy of SARS-CoV-2," he says. But he does not want to risk apathy returning to take over, as it did after SARS and MERS. "We have to get busy now."

Da:


https://www.lescienze.it/news/2021/04/21/news/covid_coronavirus_ricerca_farmaci_antivirali_remdesivir_pandemia-4921914/?fbclid=IwAR3VTesYobhk1EyJfYM2mlgQGFOdSU1NKhu4aY3iliitgvjLtrpau5ECDDY


Commenti

  1. studi e ricerche inutili, le cure c'erano prima che il virus apparisse su questa terra, basta far euna ricerca sul sito "pubmed scrivendo per esempio high IV dose of vitamin C virus . Qui solo uno dei tanti esempi https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34106642/

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