Le muffe melmose ricordano. Ma imparano? / The muddy molds remember. But do they learn?


Le muffe melmose ricordano. Ma imparano? The muddy molds remember. But do they learn?

Segnalato dal Dott. Giuseppe Cotellessa / Reported by Dr. Giuseppe Cotellessa




Muffa melmosa Physarum polycephalum in un’immagine ripresa al microscopio elettronico. Nonostante la sua semplicità di singola cellula e la mancanza di un sistema nervoso, mostra una forma elementare di apprendimento, secondo i risultati di alcuni studi. Science (Photo Library/AGF) / Slime mold Physarum polycephalum in an image taken under an electron microscope. Despite its simplicity of single cell and the lack of a nervous system, it shows an elementary form of learning, according to the results of some studies

Sempre più prove scientifiche dimostrano che gli organismi senza sistema nervoso possono, in un certo senso, apprendere e risolvere problemi, ma i ricercatori sono in disaccordo tra loro sul fatto che questa sia o meno una "cognizione primitiva"


Le muffe melmose sono tra gli organismi più strani del mondo. A lungo scambiati per funghi, ora sono classificati come un tipo di ameba. In quanto organismi unicellulari, non hanno né neuroni né cervello. Eppure, per circa un decennio, gli scienziati hanno discusso se le muffe melmose (note anche come funghi mucillaginosi o muffe mucillaginose) avessero la capacità di conoscere i loro ambienti e adeguare il loro comportamento di conseguenza.


Per Audrey Dussutour, biologa del francese Centre national de la recherche scientifique (CNRS) e a capo del centro di ricerca sulla cognizione animale dell’Università Paul Sabatier di Tolosa, in Francia, il dibattito è concluso. Il suo gruppo non solo ha insegnato alle muffe melmose a ignorare le sostanze nocive che normalmente eviterebbero, ma ha dimostrato che questi organismi potevano ricordare questo comportamento dopo un anno di quiescenza forzata e fisiologicamente dirompente. Ma i risultati dimostrano che le muffe melmose – e forse una vasta gamma di altri organismi privi di cervello – possono esibire una forma primitiva di cognizione?

Le muffe melmose sono relativamente facili da studiare, come i protozoi.


Sono organismi macroscopici che possono essere facilmente manipolati e osservati. Ci sono più di 900 specie di muffe melmose; alcune vivono come organismi unicellulari per la maggior parte del tempo, ma si riuniscono in un ammasso per foraggiarsi e procreare quando il cibo è scarso. Altre, le cosiddette muffe melmose plasmodiali, vivono sempre come un’unica enorme cellula contenente migliaia di nuclei. Soprattutto, alle muffe della melma possono essere insegnati nuovi comportamenti; a seconda della specie, potrebbero non gradire la caffeina, il sale o la luce intensa, ma possono imparare che le aree proibite, contaminate da queste sostanze, non sono così negative come sembrano, grazie a un processo noto come abituazione.


“Secondo le definizioni classiche di abituazione, questo primitivo organismo unicellulare sta imparando, proprio come fanno gli animali dotati di cervello”, ha detto Chris Reid, biologo del comportamento alla Macquarie University, in Australia. “Poiché i funghi mucillaginosi non hanno alcun neurone, i meccanismi del processo di apprendimento devono essere completamente diversi; tuttavia, risultato e significato funzionale sono gli stessi”.

Per Dussutour, “il fatto che questi organismi abbiano la capacità di imparare ha implicazioni considerevoli, che vanno oltre il riconoscimento dell’esistenza di un apprendimento nei sistemi non neuronali”. La ricercatrice crede che le muffe melmose possano aiutare gli scienziati a capire quando e dove nell’albero della vita si sono evolute le prime forme di apprendimento.

Ancora più intrigante e forse controverso è il fatto che la ricerca di Dussutour e altri suggerisce che le muffe della melma possono trasferire i loro ricordi acquisiti da una cellula all’altra, ha detto František Baluška, biologo cellulare vegetale dell’Università di Bonn, in Germania. “Questo è assai interessante per la nostra comprensione di organismi molto più grandi come animali, esseri umani e piante.”

Una storia di assuefazione
Gli studi sul comportamento degli organismi primitivi risalgono alla fine dell’Ottocento, quando Charles Darwin e suo figlio Francis proposero che nelle piante, le punte delle loro radici, in una piccola regione chiamata apice, potessero agire come cervello. Herbert Spencer Jennings, autorevole zoologo e pioniere della genetica, propose lo stesso nel suo libro del 1906, Behavior of the Lower Organisms. Tuttavia, la nozione secondo cui gli organismi unicellulari possano imparare qualcosa e immagazzinare ricordi a livello cellulare è nuova e controversa. Tradizionalmente, gli scienziati hanno collegato direttamente il fenomeno dell’apprendimento all’esistenza di un sistema nervoso. Un certo numero di persone, ha detto Dussutour, pensava che la sua ricerca “fosse una terribile perdita di tempo e che avrebbe raggiunto un punto morto”.

Lei ha iniziato a studiare questi viscidi blob mettendosi “nella posizione delle muffe melmose”, ha detto, chiedendosi che cosa avrebbe avuto bisogno di imparare sul suo ambiente per sopravvivere e prosperare. Le muffe melmose strisciano lentamente e possono facilmente bloccarsi in ambienti troppo secchi, salati o acidi. Quindi Dussutour si è chiesta se le muffe melmose potessero abituarsi a condizioni disagevoli e ha escogitato un modo per testare le loro abilità di abituazione.

L’abituazione, o anche assuefazione, non è solo adattamento: è considerata la forma più semplice di apprendimento. Si riferisce a come un organismo risponde quando incontra ripetutamente le stesse condizioni e al fatto che possa filtrare uno stimolo che ha realizzato essere irrilevante. Per gli esseri umani, un classico esempio di abituazione è che smettiamo di notare la sensazione dei nostri vestiti contro la nostra pelle pochi istanti dopo averli indossati. Allo stesso modo possiamo smettere di notare molti odori sgradevoli o suoni di sottofondo, specialmente se sono immutabili, e quando non sono importanti per la nostra sopravvivenza. Per noi e per altri animali, questa forma di apprendimento è resa possibile dalle reti di neuroni del nostro sistema nervoso che rilevano ed elaborano gli stimoli e mediano le nostre risposte. Ma come può avvenire negli organismi unicellulari senza neuroni?

A partire dal 2015, Dussutour e il suo gruppo hanno ottenuto campioni di muffe melmose da colleghi dell’Università di Hakodate, in Giappone, e testato la loro capacità di abituazione. I ricercatori hanno messo in laboratorio pezzi di muffa melmosa e hanno collocato a breve distanza piatti di farina d’avena, uno dei cibi preferiti dall’organismo. Per raggiungere la farina d’avena, le muffe melmose avrebbero dovuto svilupparsi superando ponti di gelatina punteggiati da caffeina o chinino, sostanze innocue ma amare, che questi organismi cercano di evitare.

Nel primo esperimento, le muffe melmose hanno impiegato dieci ore per attraversare il ponte e hanno cercato di non toccarlo”, ha detto Dussutour. Dopo due giorni, hanno iniziato a ignorare la sostanza amara, e dopo sei giorni ogni gruppo ha smesso di rispondere al deterrente.



Fungo mucillaginoso della specie Fuligo septica.(Wikimedia Commons)  / Mucilaginous fungus of the species of Fuligo septica




L'abituazione che le muffe melmose avevano appreso era specifica per la sostanza: quelle che si erano abituate alla caffeina erano ancora riluttanti ad attraversare un ponte contenente il chinino e viceversa. Ciò dimostrava che questi organismi avevano imparato a riconoscere un particolare stimolo e ad adeguare la loro risposta a esso, e a non attraversare i ponti in modo indiscriminato.

Infine, gli scienziati hanno lasciato riposare le muffe melmose per due giorni in situazioni in cui non erano esposte né al chinino né alla caffeina, e poi li hanno testati nuovamente con i ponti nocivi. “Abbiamo osservato che recuperavano la condizione originaria: mostrano di nuovo avversione”, ha detto Dussutour. Le muffe melmose erano tornate al loro comportamento di origine.

Naturalmente, gli organismi possono adattarsi ai cambiamenti ambientali in modi che non implicano necessariamente l’apprendimento. Ma il lavoro di Dussutour suggerisce che le muffe melmose possono a volte assumere questi comportamenti attraverso una forma di comunicazione, non solo con l’esperienza. In uno studio di follow-up, il suo gruppo ha dimostrato che le muffe melmose naïve, cioè non assuefatte, potevano acquisire direttamente un comportamento appreso da quelle assuefatte, mediante un processo di fusione cellulare.

A differenza dei complessi organismi multicellulari, le muffe melmose possono essere tagliate in molti pezzi; una volta rimessi insieme, questi pezzi si fondono e formano un’unica gigantesca muffa melmosa, con collegamenti tubolari simili a vene pieni di citoplasma, che scorre velocemente tra i pezzi mentre si collegano. Dussutour ha tagliato le sue muffe melmose in più di 4000 pezzi e ne ha addestrati una metà con il sale, un’altra sostanza che questi organismi evitano, anche se non così fortemente quanto chinino e caffeina. Il gruppo ha fuso i pezzi assortiti in varie combinazioni, mescolando muffe melmose assuefatte al sale con quelli non assuefatte. Poi ha testato le nuove entità.

“Abbiamo dimostrato che quando c’era una muffa melmosa assuefatta nell’entità che si stava formando, l’entità mostrava assuefazione”, ha detto. “Così una muffa melmosa è in grado di trasferire questa risposta di abituazione a un’altra”. I ricercatori hanno poi separato di nuovo i diversi le diverse muffe melmose dopo tre ore, il tempo necessario a tutte le venature del citoplasma per formarsi correttamente, ed entrambe le parti mostravano ancora assuefazione. L’organismo aveva imparato.

Indizi di cognizione primitiva
Ma Dussutour voleva spingersi oltre e vedere se quella memoria di abituazione potesse essere richiamata a lungo termine. Così lei e il suo gruppo hanno messo i blob in quiescenza per un anno seccandoli in modo controllato. A marzo, hanno risvegliato i blob, che si sono trovati circondati dal sale. Le muffe melmose non assuefatte sono morte, forse per lo shock osmotico, perché non riuscivano a far fronte alla rapidità con cui l’umidità usciva dalle loro cellule. “Abbiamo perso un sacco di muffe melmose in questo modo”, ha detto Dussutour. “Ma quelle assuefatti sono sopravvissute”. Hanno anche iniziato rapidamente a svilupparsi nel loro ambiente salato alla ricerca di cibo.

Secondo Dussutour, che ha descritto questo lavoro inedito in un incontro scientifico ad aprile scorso all’Università di Brema, in Germania, questo significa che i funghi mucillaginosi possono imparare e possono conservare la conoscenza acquisita durante la quiescenza, nonostante i notevoli cambiamenti fisici e biochimici nelle cellule che accompagnano quella trasformazione. Essere in grado di ricordare dove trovare il cibo in natura è un’abilità utile per le muffe melmose, perché il loro ambiente può essere insidioso. “È molto positivo che possano assuefarsi, altrimenti sarebbero bloccate”, ha detto Dussutour.

A un livello più profondo, ha detto, questo risultato significa anche che esiste una sorta di “cognizione primitiva”, una forma di cognizione che non è limitata agli organismi dotati di un cervello.

Gli scienziati non hanno idea di quale meccanismo sia alla base di questo tipo di cognizione. Baluška pensa che potrebbe essere coinvolto un certo numero di processi e molecole, e che possa variare tra organismi semplici. Nel caso delle muffe melmose, il loro citoscheletro può formare reti intelligenti e complesse in grado di elaborare informazioni sensoriali. “Forniscono queste informazioni ai nuclei”, ha spiegato.

Non sono solo le muffe melmose a essere in grado di imparare. I ricercatori stanno studiando altri organismi non neuronali, come le piante, per scoprire se possono mostrare la forma più elementare di apprendimento. Per esempio, nel 2014 Monica Gagliano e i suoi colleghi dell’Università dell’Australia Occidentale e dell’Università di Firenze hanno pubblicato un articolo che ha suscitato clamore sui media, per una serie di esperimenti con piante della specie Mimosa pudica. Le piante di mimosa sono notoriamente sensibili all’essere toccate o altrimenti disturbate fisicamente: arricciano immediatamente le foglie delicate come meccanismo di difesa. Gagliano ha costruito un meccanismo che avrebbe fatto cadere bruscamente le piante di circa 30 centimetri senza danneggiarle. All’inizio, le piante ritiravano e arricciavano le foglie quando venivano lasciate cadere. Ma dopo un po’ le piante hanno smesso di reagire: apparentemente “hanno imparato” che non era necessaria alcuna risposta difensiva.



Physarum polycephalum sulla corteccia di un pino. (Science Photo Library/AGF)  / Physarum polycephalum on the bark of a pine


Tradizionalmente, si riteneva che gli organismi semplici, senza cervello o neuroni, fossero capaci al massimo di un comportamento di stimolo-risposta. La ricerca sul comportamento di protozoi come la muffa melmosa Physarum polycephalum (in particolare il lavoro di Toshiyuki Nakagaki dell’Università di Hokkaido, in Giappone) suggerisce che questi organismi apparentemente semplici siano in grado di prendere decisioni complesse e di risolvere i problemi nei loro ambienti. Per esempio, Nakagaki e colleghi hanno dimostrato che le muffe melmose sono in grado di risolvere il rompicapo del labirinto e di creare reti di distribuzione efficienti tanto quanto quelle progettate dagli esseri umani (in un famoso esperimento, le muffe melmose ricrearono il sistema ferroviario di Tokyo).

Chris Reid e il suo collega Simon Garnier, che dirige lo Swarm Lab presso il New Jersey Institute of Technology, stanno lavorando sul meccanismo grazie a cui una muffa melmosa trasferisce le informazioni tra tutte le sue parti per agire come una sorta di collettivo che imita le capacità di un cervello pieno di neuroni. Ogni piccola parte della muffa melmosa si contrae e si espande nell’arco di circa un minuto, ma il tasso di contrazione è legato alla qualità dell’ambiente locale. Gli stimoli attraenti causano pulsazioni più veloci, mentre gli stimoli negativi causano il rallentamento delle pulsazioni. Ogni parte pulsante influenza anche la frequenza di pulsazione delle sue vicine, non diversamente dal modo in cui i tassi di attivazione dei neuroni collegati tra loro si influenzano a vicenda. Usando tecniche di computer vision ed esperimenti che potrebbero essere paragonati a una versione per muffe melmose di una scansione cerebrale di risonanza magnetica, i ricercatori stanno esaminando come le muffe melmose usino questo meccanismo per trasferire informazioni in tutto il loro gigantesco corpo unicellulare e prendere decisioni complesse tra stimoli contrastanti tra loro.

La lotta per conservare la peculiarità del cervello
Ma alcuni biologi e neuroscienziati criticano i risultati. “I neuroscienziati sono contrari a svalutare la particolarità del cervello”, ha detto Michael Levin, biologo della Tufts University. “I cervelli sono fantastici, ma dobbiamo ricordare da dove vengono. I neuroni si sono evoluti da cellule non neuronali, non sono apparsi magicamente”. Alcuni biologi si oppongono “all’idea che le cellule possano avere obiettivi, ricordi e così via, perché suona come una magia”, ha aggiunto. Ma dobbiamo ricordare, ha detto, che il lavoro fatto nel corso dell’ultimo secolo nel campo della teoria del controllo, della cibernetica, dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico ha dimostrato che i sistemi meccanici possono avere obiettivi e prendere decisioni. “L’informatica ha imparato da tempo che l’elaborazione delle informazioni è indipendente dal substrato”, ha affermato Levin. “Non è questione di che cosa sei fatto, ma di come fai i calcoli”.

Tutto dipende da come si definisce l’apprendimento, secondo John Smythies, direttore del Laboratory for Integrative Neuroscience dell’Università della California a San Diego. Smythies non è convinto che l’esperimento di Dussutour con le muffe melmose che si abituano al sale dopo la prolungata quiescenza mostri granché. “L’apprendimento implica un comportamento e morire non lo è”, ha detto.

Per Fred Kaijzer, scienziato cognitivo dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, la questione se questi comportamenti interessanti dimostrino che le muffe melmose possano imparare è simile al dibattito sul fatto che Plutone sia un pianeta: la risposta dipende molto da come il concetto di apprendimento viene posto nella prova empirica. Tuttavia, ha spiegato, “non vedo ragioni scientifiche chiare per negare l’idea che gli organismi non neurali possono effettivamente imparare”.

Baluška ha detto che molti ricercatori sono fortemente in disaccordo anche sul fatto che le piante possano avere ricordi, apprendimento e cognizione. Le piante sono ancora considerate come “automi simili a zombie invece che organismi viventi in piena regola”, ha detto.

Ma la percezione comune sta lentamente cambiando. “Per le piante, nel 2005 abbiamo avviato la Plant Neurobiology Initiative: anche se non è ancora accettata dalla visione corrente, abbiamo già modificato questa percezione così tanto che termini come segnalazione, comunicazione e comportamento delle piante sono ora più o meno accettati”, ha affermato.

Il dibattito non è probabilmente una lotta per la scienza, ma per le parole. “La maggior parte dei neuroscienziati con cui ho parlato dell’intelligenza delle muffe melmose è abbastanza felice di accettare che gli esperimenti siano validi e mostrino esiti funzionali simili agli stessi esperimenti effettuati su animali con cervello”, ha detto Reid. Quello che sembrano voler discutere è l’uso di termini tradizionalmente riservati alla psicologia e alle neuroscienze e quasi universalmente associati al cervello, come apprendimento, memoria e intelligenza. “I ricercatori che si occupano di muffe melmose insistono sul fatto che il comportamento funzionalmente equivalente osservato in questi organismi dovrebbe indurre a usare gli stessi termini descrittivi degli animali con cervello, mentre i neuroscienziati classici sostengono che la definizione stessa dell’apprendimento e dell’intelligenza richiede un’architettura basata sui neuroni”.

Baluška ha spiegato che, di conseguenza, non è facile ottenere finanziamenti per gli studi sulla cognizione primitiva. “La questione più importante è che agenzie ed enti finanziatori inizieranno a sostenere queste proposte di progetto. Finora, la scienza, nonostante alcune eccezioni, è piuttosto riluttante a questo riguardo, il che è un vero peccato. Per ottenere il riconoscimento ufficiale, i ricercatori che si occupano di cognizione primitiva dovranno dimostrare l’abituazione a una vasta gamma di stimoli e, cosa più importante, determinare i meccanismi esatti in base ai quali si ottiene l’abituazione e come può essere trasferita tra singole cellule, ha detto Reid. “Questo meccanismo deve essere molto diverso da quello osservato nel cervello, ma le somiglianze negli esiti funzionali rendono il confronto estremamente interessante.”


ENGLISH

More and more scientific evidence shows that organisms without a nervous system can, in a sense, learn and solve problems, but researchers disagree with each other that this is a "primitive cognition" or not.

Slime molds are among the strangest organisms in the world. Long traded for mushrooms, they are now classified as a type of amoeba. As unicellular organisms, they have neither neurons nor brains. Yet, for about a decade, scientists have been discussing whether muddy molds (also known as mucilaginous fungi or mucilaginous molds) have the ability to know their environments and adjust their behavior accordingly.

For Audrey Dussutour, biologist of the French Center national de la recherche scientifique (CNRS) and head of the research center on animal cognition at the Paul Sabatier University in Toulouse, France, the debate is over. His group not only taught the muddy molds to ignore the harmful substances they would normally avoid, but showed that these organisms could remember this behavior after a year of forced and physiologically disruptive quiescence. But do the results show that slime molds - and perhaps a wide range of other brainless organisms - can exhibit a primitive form of cognition?

Slime molds are relatively easy to study, like protozoa.

They are macroscopic organisms that can be easily manipulated and observed. There are more than 900 species of muddy molds; some live as single-celled organisms most of the time, but gather in a heap to forage and procreate when food is scarce. Others, the so-called plasmodial slime molds, always live as one huge cell containing thousands of nuclei. Above all, new behaviors can be taught to the molds of slime; depending on the species, they might not like caffeine, salt or bright light, but they can learn that the forbidden areas, contaminated by these substances, are not as bad as they seem, thanks to a process known as habituation.

"According to classic definitions of habituation, this primitive single-celled organism is learning, just like animals with brains do," said Chris Reid, behavioral biologist at Macquarie University, Australia. "Because mucilaginous fungi do not have any neurons, the mechanisms of the learning process must be completely different; however, the result and functional meaning are the same ".

According to Dussutour, "the fact that these organisms have the ability to learn has considerable implications, which go beyond recognizing the existence of learning in non-neuronal systems". The researcher believes that the muddy molds can help scientists understand when and where the first forms of learning have evolved in the tree of life.

Even more intriguing and perhaps controversial is the fact that research by Dussutour and others suggests that slime molds can transfer their acquired memories from one cell to another, said František Baluška, a plant cell biologist from the University of Bonn, in Germany. "This is very interesting for our understanding of much larger organisms such as animals, humans and plants."

A story of addiction

Studies on the behavior of primitive organisms date back to the late nineteenth century, when Charles Darwin and his son Francis proposed that in plants, the tips of their roots, in a small region called apex, could act as a brain. Herbert Spencer Jennings, authoritative zoologist and pioneer of genetics, proposed the same in his 1906 book, Behavior of the Lower Organisms. However, the notion that unicellular organisms can learn something and store memories at the cellular level is new and controversial. Traditionally, scientists have directly linked the phenomenon of learning to the existence of a nervous system. A number of people, Dussutour said, thought his research "was a terrible waste of time and would have reached a standstill."

She started studying these slimy blobs by putting herself "in the position of the muddy molds," she said, wondering what she would need to learn about her environment to survive and thrive. Slime molds crawl slowly and can easily get stuck in too dry, salty or acidic environments. So Dussutour wondered if the muddy molds could get used to uncomfortable conditions and devised a way to test their abilities.

The habituation, or even habitat, is not just adaptation: it is considered the simplest form of learning. It refers to how an organism responds when it repeatedly encounters the same conditions and the fact that it can filter out a stimulus that it has realized to be irrelevant. For humans, a classic example of habituation is that we stop noticing the feeling of our clothes against our skin a few moments after wearing them. In the same way we can stop noticing many unpleasant smells or background sounds, especially if they are immutable, and when they are not important for our survival. For us and for other animals, this form of learning is made possible by the networks of neurons of our nervous system that detect and process stimuli and mediate our responses. But how can it occur in single-celled organisms without neurons?

Starting in 2015, Dussutour and his group obtained samples of muddy mold from colleagues at the University of Hakodate, Japan, and tested their ability to get used to. The researchers put pieces of muddy mold into the laboratory and placed oatmeal plates a short distance away, one of the body's favorite foods. To reach the oatmeal, the muddy molds would have to develop by overcoming jelly bridges punctuated by caffeine or quinine, harmless but bitter substances that these organisms try to avoid.

"In the first experiment, the muddy molds took ten hours to cross the bridge and tried not to touch it," Dussutour said. After two days, they started ignoring the bitter substance, and after six days each group stopped responding to the deterrent.

The habituation that the muddy molds had learned was specific to the substance: those who had become used to caffeine were still reluctant to cross a bridge containing quinine and vice versa. This showed that these organisms had learned to recognize a particular stimulus and to adapt their response to it, and not to cross bridges indiscriminately.

Finally, the scientists left the muddy molds to rest for two days in situations where they were not exposed to either quinine or caffeine, and then tested them again with harmful bridges. "We observed that they recovered the original condition: they show again aversion," said Dussutour. The muddy molds had returned to their original behavior.

Naturally, organisms can adapt to environmental changes in ways that do not necessarily imply learning. But Dussutour's work suggests that slime molds can sometimes assume these behaviors through a form of communication, not just with experience. In a follow-up study, his team showed that naive, ie, non-addicted, muddy molds could directly acquire a behavior learned from the addicted ones, through a cell fusion process.

Unlike complex multicellular organisms, slime molds can be cut into many pieces; once they are put back together, these pieces merge and form a single, gigantic mold, with tubular links similar to veins full of cytoplasm, which flows quickly between the pieces as they connect. Dussutour has cut its muddy molds in more than 4000 pieces and has trained half of them with salt, another substance that these organisms avoid, even if not as strongly as quinine and caffeine. The group has melted the assorted pieces in various combinations, mixing muddy molds addicted to salt with those not addicted. Then he tested the new entities.

"We showed that when there was an addictive slime mold in the entity that was forming, the entity showed addiction," he said. "So a muddy mold can transfer this habituation response to another". The researchers then separated the different muddy molds again after three hours, the time needed for all the cytoplasm veins to form properly, and both sides still showed habituation. The organism had learned.

Indications of primitive cognition

But Dussutour wanted to go further and see if that memory of habituation could be recalled in the long run. So she and her group put the blobs quiescent for a year, drying them in a controlled way. In March, the blobs awakened and found themselves surrounded by salt. The non-addicted muddy molds died, perhaps due to the osmotic shock, because they could not cope with the rapidity with which the moisture came out of their cells. "We've lost a lot of muddy mold like this," said Dussutour. "But the addicts have survived". They also quickly started to develop in their salty environment in search of food.

According to Dussutour, who described this unpublished work in a scientific meeting last April at the University of Bremen in Germany, this means that mucilaginous fungi can learn and retain the knowledge acquired during quiescence, despite significant physical and biochemical changes. in the cells that accompany that transformation. Being able to remember where to find food in nature is a useful skill for muddy molds, because their environment can be insidious. "It is very good that they can become addicted, otherwise they would be blocked," Dussutour said.

At a deeper level, he said, this result also means that there is a kind of "primitive cognition", a form of cognition that is not limited to organisms with a brain.

Scientists have no idea of ​​what mechanism underlies this type of cognition. Baluška thinks that a number of processes and molecules could be involved, and that it can vary between simple organisms. In the case of muddy molds, their cytoskeleton can form intelligent and complex networks capable of processing sensory information. "They provide this information to the nuclei," he explained.

It is not just the muddy molds that are able to learn. Researchers are studying other non-neuronal organisms, such as plants, to find out if they can show the most basic form of learning. For example, in 2014 Monica Gagliano and her colleagues from the University of Western Australia and the University of Florence published an article that caused a stir in the media, for a series of experiments with plants of the Mimosa pudica species. Mimosa plants are notoriously sensitive to being touched or otherwise physically disturbed: they immediately curl delicate leaves as a defense mechanism. Gagliano has built a mechanism that would have abruptly dropped the plants by about 30 centimeters without damaging them. At the beginning, the plants withdrew and curled the leaves when they were dropped. But after a while the plants stopped reacting: apparently they "learned" that no defensive response was necessary.


Traditionally, it was thought that simple organisms, without brains or neurons, were capable of maximizing stimulus-response behavior. Research on the behavior of protozoa such as the muddy mold Physarum polycephalum (in particular the work of Toshiyuki Nakagaki of the University of Hokkaido, in Japan) suggests that these seemingly simple organisms are able to make complex decisions and solve problems in their environments . For example, Nakagaki and colleagues have shown that the muddy molds can solve the maze puzzle and create efficient distribution networks as much as those designed by humans (in a famous experiment, the muddy molds recreated the Tokyo railway system ).

Chris Reid and his colleague Simon Garnier, who directs the Swarm Lab at the New Jersey Institute of Technology, are working on the mechanism by which a muddy mold transfers information between all its parts to act as a sort of collective that mimics the ability of a brain full of neurons. Every small part of the slime mold contracts and expands within about a minute, but the rate of contraction is related to the quality of the local environment. The attractive stimuli cause faster pulsations, while the negative stimuli cause the slowing of the pulsations. Each pulsating part also influences the pulsation frequency of its neighbors, not unlike the way in which the activation rates of the connected neurons influence each other. Using computer vision techniques and experiments that could be compared to a muddy mold version of a magnetic resonance brain scan, researchers are examining how muddy molds use this mechanism to transfer information throughout their gigantic single-celled body and make complex decisions. between conflicting stimuli.

The struggle to preserve the peculiarity of the brain
But some biologists and neuroscientists criticize the results. "Neuroscientists are opposed to devaluing the particularity of the brain," said Michael Levin, a biologist at Tufts University. "Brains are fantastic, but we have to remember where they come from. Neurons have evolved from non-neuronal cells, they have not magically appeared ". Some biologists oppose "the idea that cells can have goals, memories, and so on, because it sounds like magic," he added. But we must remember, he said, that the work done over the last century in the field of control theory, cybernetics, artificial intelligence and machine learning has shown that mechanical systems can have goals and make decisions. "Information technology has long learned that information processing is independent of the substrate," said Levin. "It's not a question of what you're made of, but of how you do the math."

It all depends on how you define learning, according to John Smythies, director of the Laboratory for Integrative Neuroscience at the University of California in San Diego. Smythies is not convinced that the Dussutour experiment with the muddy molds that get used to the salt after prolonged quiescence shows a lot. "Learning involves behavior and dying is not," he said.

For Fred Kaijzer, cognitive scientist at the University of Groningen in the Netherlands, the question of whether these interesting behaviors prove that the muddy molds can be learned is similar to the debate about Pluto being a planet: the answer depends a lot on how the concept of learning is placed in the empirical test. However, he explained, "I do not see clear scientific reasons for denying the idea that non-neural organisms can actually learn."

Baluška said that many researchers strongly disagree about the fact that plants can have memories, learning and cognition. Plants are still considered as "zombie-like automata instead of full-blown living organisms," he said.

But common perception is slowly changing. "For plants, in 2005 we started the Plant Neurobiology Initiative: even if it is not yet accepted by the current vision, we have already modified this perception so much that terms such as signaling, communication and behavior of plants are now more or less accepted", He said.

The debate is probably not a struggle for science, but for words. "Most neuroscientists with whom I have talked about the intelligence of the muddy molds are happy enough to accept that the experiments are valid and show similar functional outcomes to the same experiments carried out on animals with brains," Reid said. What they seem to want to discuss is the use of terms traditionally reserved for psychology and neuroscience and almost universally associated with the brain, such as learning, memory and intelligence. "Researchers dealing with slime molds insist that the functionally equivalent behavior observed in these organisms should lead to the same descriptive terms of animals with brains, while classical neuroscientists argue that the very definition of learning and intelligence requires an architecture based on neurons ".

Baluška explained that, as a result, it is not easy to obtain funding for studies on primitive cognition. "The most important issue is that funding agencies and bodies will start to support these project proposals. So far, science, despite some exceptions, is rather reluctant in this regard, which is a real pity. To obtain official recognition, researchers working with primitive cognition will have to demonstrate their accustomedness to a wide range of stimuli and, more importantly, determine the exact mechanisms by which they get used to and how they can be transferred between single cells, Reid said. "This mechanism must be very different from the one observed in the brain, but the similarities in the functional outcomes make the comparison extremely interesting."



Da:

http://www.lescienze.it/news/2018/07/21/news/funghi_mucillaginosi_ricordano_imparano-4053372/?ref=nl-Le-Scienze_27-07-2018



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