Immunoncologia: le nuove terapie mirate in grado di regolare la risposta immunitaria / Immunoncology: new targeted therapies that can regulate the immune response

Immunoncologia: le nuove terapie mirate in grado di regolare la risposta immunitaria Immunoncology: new targeted therapies that can regulate the immune response


Segnalato dal Dott. Giuseppe Cotellessa / Reported by Dr. Giuseppe Cotellessa





L’idea di stimolare le nostre difese immunitarie contro il tumore ha origini antiche. Siamo infatti all’inizio del XX secolo quando il chirurgo americano William Bradley Coley (1862-1936) iniziava la sua carriera nel campo dei tumori dell’osso presso il centro Memorial Sloan Kettering Cancer Center. Durante i suoi primi anni di servizio, Coley osservava che diversi casi di tumore dell’osso regredivano, seppur limitatamente, a seguito di infezioni dei tessuti molli (erisipela) vicino all’area tumorale. Si delineò così la teoria per cui i pazienti che sviluppavano infezioni post-chirurgiche (ai tempi non esistevano gli antibiotici) ottenevano un controllo tumorale maggiore dovuto probabilmente ad una iperattivazione del sistema immunitario che, stimolato dai batteri, agiva anche contro le cellule tumorali.
Il chirurgo iniziò successivamente ad iniettare tossine batteriche vicino all’area tumorale (tossina di Coley) cercando di sollecitare questa risposta immunitaria. Ovviamente, la pericolosità di questa tecnica, la non sufficiente comprensione dei meccanismi di funzionamento del sistema immunitario e la casuale efficacia della metodica, fecero declinare l’interesse del mondo oncologico verso questo approccio in favore della chirurgia e della neonata radioterapia.
Il paradigma dell’oncologia medica rimarrà negli anni successivi focalizzato sul concetto di identificare ed attaccare il tumore tramite interventi o sostanze provenienti dall’esterno (chirurgia, radioterapia, chemioterapia). Per quanto riguarda l’uso dei chemioterapici, ossia di sostanze prodotte con sintesi chimica, tale paradigma viene esasperato anche a seguito dell’introduzione degli antibiotici contro le infezioni batteriche durante gli anni ‘40. I miracolosi successi della penicillina, il “proiettile magico” in grado di guarire gran parte di quelle infezioni fino ad allora letali (polmoniti, sifilide etc.etc.), fecero abbracciare anche agli oncologi l’idea di creare ed utilizzare farmaci in grado di identificare ed eliminare le cellule tumorali.
Negli anni ’50 iniziò la produzione e l’utilizzo dei primi chemioterapici. Fin dai primi anni fu subito evidente come tali farmaci non fossero specifici e risolutivi come gli antibiotici. A fronte di una limitata efficacia, lo stesso incremento degli effetti collaterali era una prova tangibile della necessità di un approccio diverso, sovversivo per la cura dei tumori.
Mentre negli anni ‘70 e ‘80 si assisteva ad un uso sempre maggiore della chemioterapia nel trattare le patologie tumorali, parallelamente gli studi biologici sul funzionamento del sistema immunitario chiarivano progressivamente come nel nostro organismo fossero presenti sistemi di “vigilanza” sulle cellule malate. Bisognerà aspettare fino alla fine del XX secolo per avere finalmente una prova tangibile di come modulando il nostro sistema immunitario si possa attaccare il tumore, ovvero di come utilizzando risorse già presenti nel nostro corpo e non provenienti dall’esterno si possa controllare la cellula neoplastica.
La creazione di anticorpi in grado di riconoscere proteine espresse sulla membrana cellulare e di favorirne la loro distruzione costituisce la prima applicazione pratica della cosiddetta immunoterapia, il cosiddetto quarto pilastro della terapia antitumorale. Anticorpi diretti contro il recettore HER2/neu (espresso da certi tipi di cancro al seno) o contro la proteina CD20 (espressa da quasi tutti i linfomi a cellule B) migliorano drammaticamente i risultati fino ad allora ottenuti solo con chemioterapia, radiote- rapia o chirurgia fornendo una prova di come stimolando il nostro sistema immunitario si possano ottenere risultati terapeutici di rilievo.

Sulla scorta di questi risultati, gli studi riguardanti l’immunoterapia vengono spinti oltre. Se guardiamo al sistema immunitario come ad una macchina, possiamo notare come tutti i primi studi si siano focalizzati sul premere l’acceleratore. Creazione di anticorpi, di vaccini, di cellule in grado di identificare proteine anomale espresse dai tumori sono infatti delle tecnologie che giocano sul potenzia- mento del sistema immunitario. Ma se un’arma così potente contro il tumore è già dentro di noi, perché permette al tumore di svilupparsi? E perché questi primi farmaci immunologici non riescono a far guariredal tumore? La risposta arriva verso la fine degli anni ‘90 quando l’attenzione si sposta sull’inibizione che il tumore esercita sul nostro sistema immunitario addormentandolo. Infatti i cosiddetti meccanismi di immunovigilanza vengono perlopiù evasi dalla cellula neoplastica che riesce a non farsi riconoscere dal nostro sistema immunitario. Queste scoperte hanno risvolti pratici enormi. E’ infatti inutile premere l’acceleratore di una macchina con il freno tirato. Pertanto, l’attenzione si è spostata recentemente sul rilasciare i freni del sistema immunitario. Se immaginiamo i nostri sistemi di difesa come addormentati dal tumore, allora interrompere questo circolo vizioso porterebbe di nuovo le nostre difese a essere in grado di riconoscere le cellule malate.

Due sono gli approcci che recentemente sono stati sviluppati seguendo questo nuovo paradigma.
Il primo approccio punta a “risvegliare” i nostri globuli bianchi e a renderli nuovamente in grado di riconoscere le cellule tumorali. Anticorpi come ipilumumab, nivolumab o pembrolizumab per primi dimostrano come questo approccio possa portare a risultati sorprendenti in situazioni dove le opzioni terapeutiche scarseggiano. Nel campo dei tumori del sangue segnaliamo come l’utilizzo di nivolumab abbia portato ad una regressione di malattia in più dell’80% di pazienti con linfoma di Hodgkin pluritrattato, risultati non ottenibili con nessun’altra terapia attuale. Lo stesso approccio è attualmente in fase di sperimentazione clinica per altre neoplasie ematologiche i cui risultati saranno disponibili a breve.
Il secondo approccio punta invece a riprogrammare i globuli bianchi del nostro organismo in modo tale che siano in grado di riconoscere le cellule tumorali e che possano attivarsi autonomamente senza essere influenzati dall’ambiente inibitorio tumorale. Questa vera e propria rivoluzione immunologica è nota con il nome di “CART cell” ovvero di “Chimeric Antigen Receptor T cell”.
In cosa consistono queste cellule CART? Il paziente viene sottoposto inizialmente ad una procedura di leucaferesi (filtrazione e selezione dei globuli bianchi dal sangue). I globuli bianchi estratti con questa procedura vengono modificati geneticamente in laboratorio e resi in grado di riconoscere una proteina espressa sulla cellula tumorale. Successivamente vengono reinfusi nel paziente generando una potente azione antitumorale. I vantaggi di questa tecnica sono quelli di essere estremamente specifica contro il tumore (la chemioterapia classica distrugge anche le cellule sane) e di avere una durata prolungata nel tempo proteggendo da potenziali recidive. Attualmente i pazienti trattati con questa metodica sono pochi, qualche centinaia nel mondo. Ciò che ha attratto l’attenzione sono stati i risultati sorprendenti ottenuti per primi su pazienti affetti da malattie ematologiche. Il primo studio clinico eseguito su bambini con leucemia linfoblastica acuta plurirecidivata ha dimostrato che fino all’80% di questi pazienti poteva ottenere risposte complete di malattia con sopravvivenza a lungo termine elevata. Se consideriamo che per questi piccoli pazienti non esisteva un’alternativa possiamo considerare miracoloso questo approccio. La stessa metodica è stata applicata su altri malati ematologici i cui risultati, sebbene non così brillanti come per la leucemia linfoblastica acuta, stanno scuotendo e meravigliando la comunità scientifica. Altre patologie ematologiche a cellule B come linfomi diffusi a grandi cellule, linfomi follicolari, leucemia linfatica cronica sono attualmente in fase sperimentale con le cellule CART.
A breve questa metodica sarà disponibile nel contesto di studi clinici anche in Italia fornendo finalmente un’altra opzione terapeutica ed una speranza per tutti quei pazienti che avendo fallito diverse linee di terapia non possono più contare su tratta- menti tradizionali per la loro malattia.
ENGLISH
The idea of stimulating our immune defense against tumor has ancient origins. We are in the early 20th century when American surgeon William Bradley Coley (1862-1936) began his career in bone disease at the Memorial Sloan Kettering Cancer Center. During his first years of service, Coley observed that several cases of bone cancer regressed, albeit limited, as a result of soft tissue infections (erisipela) near the tumor area. It was thus outlined the theory that patients who developed post-surgical infections (at times no antibiotics existed) gained greater tumor control due probably to a hyperactivation of the immune system that, also stimulated by bacteria, also acted against tumor cells.
The surgeon then began to inject bacterial toxins near the cancerous area (Coley's toxin) trying to solicit this immune response. Obviously, the danger of this technique, the inadequate understanding of the mechanisms of functioning of the immune system and the random effectiveness of the method, made the oncological world's interest in this approach in favor of surgery and infant radiotherapy declining.
The medical paradigm will remain in the following years focused on the concept of identifying and attacking the tumor by interventions or substances coming from outside (surgery, radiotherapy, chemotherapy). As for the use of chemotherapists, ie chemicals produced by chemical synthesis, this paradigm is exacerbated even after the introduction of antibiotics against bacterial infections during the '40s. The miraculous successes of penicillin, the "magic bullet" that can cure most of those lethal infections (pneumonia, syphilis, etc.), also embraced the oncologists with the idea of creating and using drugs capable of Identify and eliminate cancer cells.
In the 1950s, production and use of the first chemotherapy started. From the early years, it was immediately apparent that such drugs were not specific and resolutive as antibiotics. In the face of limited efficacy, the same increase in side effects was a tangible proof of the need for a different, subversive approach to cancer care.
While in the 1970s and 1980s there was an increasing use of chemotherapy in treating cancer, parallel biological studies on the functioning of the immune system progressively clarified how our body had "vigilance" systems on diseased cells. We will have to wait until the end of the 20th century to finally have a tangible proof of how modulating our immune system can attack the tumor, that is, how using the resources already present in our body and not coming from the outside can control the neoplastic cell.
The creation of antibodies capable of recognizing proteins expressed on the cell membrane and favoring their destruction constitutes the first practical application of so-called immunotherapy, the so-called fourth pillar of antitumor therapy. The antibody directed against HER2 / neu (expressed by certain types of breast cancer) or against CD20 protein (expressed by virtually all cell B lymphomas) dramatically improves the results so far obtained only with chemotherapy, radiotherapy or Surgery provides evidence of how to stimulate our immune system to achieve remarkable therapeutic results.
Based on these results, studies on immunotherapy are pushed further. If we look at the immune system like a machine, we can see that all the first studies have focused on pressing the accelerator. Creating antibodies, vaccines, and cells that can identify abnormal proteins expressed by tumors are in fact the technologies that play in boosting the immune system. But if such a powerful weapon against the tumor is already inside us, because it allows the tumor to develop? And why do these first immunologic drugs fail to the guariredal tumor? The answer comes to the late 1990s when attention moves on the inhibition that the tumor exerts on our immune system by falling asleep. In fact, the so-called immune vigilance mechanisms are mostly evaded by the neoplastic cell that can not be recognized by our immune system. These discoveries have become enormous practical. It is unnecessary to press the accelerator of a machine with the pulled brake. Therefore, attention has shifted recently to releasing the immune system's brakes. If we imagine our defense systems as falling asleep by the tumor, then interrupting this vicious circle would bring our defenses back to being able to recognize the sick cells.
Two are the approaches that have recently been developed following this new paradigm.
The first approach aims to "awaken" our white blood cells and make them able to recognize cancer cells again. Antibodies such as ipilumumab, nivolumab or pembrolizumab first demonstrate how this approach can lead to surprising results in situations where therapeutic options are scarce. In the field of blood cancer, we point out that the use of nivolumab has led to a regression of disease in more than 80% of patients with  Hodgkin lymphoma, results not obtainable with any other current therapy. The same approach is currently undergoing clinical trials for other hematologic neoplasms whose results will be available shortly.
The second approach, however, aims to reprogram the white blood cells of our organism so that they are capable of recognizing the human cells and that they can act independently without being influenced by the tumor inhibitory environment. This real immunological revolution is known as "CART cell" or "Chimeric Antigen Receptor T cell".
What do these CART cells consist of? The patient is initially subjected to a procedure of leukemia (filtration and selection of white blood cells). The white blood cells extracted by this procedure are genetically modified in the laboratory and are able to recognize a protein expressed on the tumor cell. They are then reinfused in the patient by generating a potent antitumor action. The advantages of this technique are those that are extremely specific to the tumor (classic chemotherapy also destroys healthy cells) and has a prolonged duration of time protecting against potential recurrences. At present, patients treated with this method are few, a few in the world. What attracted attention was the surprising results first obtained in patients with hematologic diseases. The first clinical trial conducted on children with multiple acute lymphoblastic leukemia showed that up to 80% of these patients could obtain complete responses of high long-term survival disease. If we consider that for these small patients there was no alternative, we can consider this approach to be miraculous. The same method has been applied to other hematologic patients whose results, though not as brilliant as acute lymphoblastic leukemia, are shaking and marveling at the scientific community. Other B-cell haematic pathologies such as large cell lymphomas, follicular lymphomas, chronic lymphocytic leukemia are currently being experimentally investigated with CART cells.

Da:
https://ailmilano.it/dalla-parte-del-paziente-educare-il-sistema-immunitario-ad-attaccare-il-tumore/



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